KERMES N. 111-2 – “La protezione internazionale dei beni culturali in caso di conflitto armato: un settore in rapida evoluzione”
“Dissemination for safeguarding”
RUBRICA REDAZIONALE SULLA PBC A RISCHIO
in collaborazione con il Maniscalco Center
(Valentina Sabucco, Daniele Oro)
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La protezione internazionale dei beni culturali
in caso di conflitto armato: un settore in rapida evoluzione
TRA UNESCO, ONG E “CASCHI BLU”
Daniele Oro, articolo pubblicato in KERMES n.111-2, settembre 2019
La storia del Novecento è stata caratterizzata da un notevole incremento della tecnologia bellica, tale per cui non solo la vita umana è stata posta sotto un’ulteriore minaccia ma anche città intere, fino ad allora quasi estranee alle vicende belliche degli stati, sono state minacciate dal potenziale distruttivo delle armi. Le due guerre mondiali sono state guerre ‘totali’ che hanno coinvolto non solo gli eserciti ma anche i
cittadini, le città, i loro edifici storici e i beni culturali.
La distruzione dei beni culturali è da ascrivere ai crimini contro l’umanità, dal momento che esiste uno stretto legame tra questi e l’identità di un gruppo; non solo, il bene culturale è qualcosa che viene riconosciuto internazionalmente come un bene che appartiene a tutta l’umanità e per questo è meritevole di tutela.
Sin dall’inizio del XX secolo, la comunità internazionale ha cercato di salvaguardare i beni culturali dalla furia distruttrice della guerra attraverso una serie di convenzioni:
dalle convenzioni dell’Aja del 1899 e 1907 sulla regolamentazione della guerra terrestre, sino ad arrivare alla convenzione dell’Aja del 1954 sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e ai suoi due protocolli (1954-1999).
Tuttavia, nessuna delle convenzioni è stata efficace nel porre un’effettiva tutela nei confronti dei beni culturali, dal momento che tutte sono state subordinate alla necessità militare, normalmente intesa quale causa di giustificazione di una condotta altrimenti vietata dal diritto internazionale, e soggette alla trasformazione della concezione della guerra. Il passaggio da guerra ‘totale’ a guerra ‘identitaria’ è
stato cruciale dal momento che mentre nel primo caso la distruzione dei beni culturali era da annoverare tra i casi di danno collaterale o danno calcolato, a partire dalla guerra nella ex-Jugoslavia, l’attacco e la distruzione dei beni culturali sono rientrati nella prassi dei gruppi armati statali e non statali nella più ampia pratica della pulizia etnica. I beni culturali sono i simboli di una determinata identità nazionale e proprio per questo, a partire dagli anni Novanta, sono divenuti gli obiettivi principali nelle guerre identitarie, dal momento che la loro distruzione può essere considerata
come la prima fase dell’annichilimento di un gruppo etnico se non addirittura di un’intera nazione. La distruzione dei beni culturali, pertanto, persegue un determinato
fine politico ed ideologico orientato alla damnatio memoriae nel quadro più generale della pulizia etnica.
È opportuno specificare che non sono soltanto i beni culturali immobili ad essere vittime eccellenti, anche i beni mobili sono vittime della più antica forma di barbarie in
guerra, la razzia. Fino alla fine dell’Ottocento, il saccheggio era considerato come il premio dei vincitori; a partire dal 1907, con la convenzione dell’Aja e successivamente con la Convezione di Ginevra, questa pratica venne bandita, anche
se nel corso della Seconda Guerra Mondiale avvenne la più grande opera di spoliazione operata dalla Germania nazista.
Oggi, pur essendo la pratica del saccheggio completamente vietata, è tornata in auge dal momento che i beni culturali mobili sono considerati una forma di finanziamento
molto redditizia: il mercato dell’arte è sempre alla ricerca di reperti da vendere e da piazzare e non sorprende che molti musei occidentali acquistino tali beni celandoli per molti anni e mostrandoli al momento opportuno. In questo contesto, il legame tra organizzazioni criminali e gruppi armati non statali è di reciproco beneficio in quanto i primi scambiano armi e munizioni, o altri generi di beni, con reperti archeologici da piazzare sul mercato nero.
Nonostante la convenzione dell’Aja del 1954 e svariate convenzioni UNESCO, la comunità internazionale è alquanto immobile nel fornire una protezione preventiva
efficace ai beni culturali a causa della frequente inadempienza degli Stati membri a proposito delle misure di salvaguardia – lasciate alla discrezionalità del singolo Stato
– che dovrebbero essere implementate, soprattutto in quei paesi in cui la salvaguardia del patrimonio artistico e culturale non è la priorità. La maggior parte degli interventi che vengono effettuati sono al termine di un conflitto e quindi la comunità internazionale agisce esclusivamente per rimediare, per quanto possibile, al danno subito, per ‘raccogliere i cocci’. Tali dinamiche sono imputabili non solo alla difficoltà di agire nel corso di un conflitto ma, probabilmente, a ragioni politiche.
L’UNESCO se da un lato si erge come baluardo nella promozione e valorizzazione dei beni culturali, da un altro, a causa della mancanza di fondi, degli interessi contrastanti dei singoli stati e della miopia della stessa organizzazione,
non riesce a fornire un’adeguata protezione a quei beni situati in zone di conflitto armato.
Il secondo protocollo, redatto in risposta alla violenza contro il patrimonio culturale nella guerra balcanica, è stato erroneamente redatto sul modello della Convenzione
di Parigi del 1972, non considerando che questa era pensata per operare in tempo di pace ed è quindi in parte non adatto a fornire la protezione opportuna nel caso di
un conflitto già avviato. Pertanto, vista l’inefficienza degli attuali strumenti di tutela, la comunità internazionale dovrebbe elaborarne di nuovi.
In linea generale la comunità internazionale riconosce come ingiustificabile e barbara la distruzione deliberata dei beni culturali, oltre ad essere una violazione del diritto
internazionale e dei diritti umani. A parte questo riconoscimento, ben poco di concreto è stato fatto nel corso degli anni, limitandosi, piuttosto, a delle blande reazioni a seguito di qualche evento drammatico. La dottrina della “Responsibility to protect” (R2P) è stata concepita nel diritto internazionale umanitario per cercare di proteggere una popolazione da massacri, genocidi, pulizia etnica e crimini contro l’umanità in generale ed impone agli stati l’obbligo di intervenire per aiutare i paesi bisognosi; ma perché non estendere questa R2P anche ai beni culturali dato che la memoria culturale di un popolo risiede nel suo stesso patrimonio ed è importante quasi in egual misura? Del resto la scrittrice croata Slavenka Drakulic si chiedeva: “Perché
proviamo un dolore più grande di fronte al ponte distrutto di Mostar che alla vista di tutta quella gente massacrata?
Perché sappiamo che la gente è mortale, ma la distruzione di un monumento della nostra civiltà è una cosa diversa. Il ponte era un tentativo di raggiungere l’eternità che trascende il nostro destino individuale”. Senza nulla togliere alla vita umana che è e deve essere tutelata in ogni caso, la scrittrice mette in risalto il valore identitario dei beni culturali, simbolo di un legame con la propria storia e testimonianza
della memoria del popolo che continua a perpetrarsi.
Ciò che rallenta o, quantomeno rende problematica, la protezione dei beni culturali è la difficoltà di coordinare l’azione delle varie organizzazioni a questo scopo dedicate.
Tuttavia, siccome a livello internazionale l’importanza di incentivare una collaborazione tra le varie parti è stata sottolineata in numerosi convegni (conferenza UNESCO a Ginevra, conferenza ICRC in Kigali, Rwanda), l’UNESCO stesso si sta muovendo in questa direzione, coinvolgendo ad esempio il Blue Shield International in questioni riguardanti la protezione dei beni culturali. Ad ogni modo, visto che le organizzazioni operanti nell’ambito sono numerose, lunga è ancora la strada prima di riuscire a creare un network efficace in grado di garantire una più effettiva
protezione del patrimonio culturale.
Secondo Massimo Carcione, questa omissione sembra essere abbastanza voluta, come si evince dalla lettura del secondo protocollo, nel quale ICBS, ICROM, IIHL e le altre ONG che avrebbero potuto fornire sia consulenza tecnica che ‘militare’, in alcuni casi non sono citate esplicitamente, ma si rimanda genericamente alle Organizzazioni che hanno rapporti in tale ambito con l’UNESCO. Tutto ciò fa pensare che la protezione sia una prerogativa degli Stati e la società civile sia considerata solo un bacino di esperti pronti a servire qualora ce ne fosse bisogno Il deficit delle ONG è spesso dovuto alla mancanza di volontà e capacità di agire da parte di queste stesse organizzazioni che si limitano a organizzare attività piuttosto blande e simboliche, incapaci di contribuire in maniera efficace allo scopo.
Il ruolo delle ONG, che andrebbe analizzato più approfonditamente, dovrebbe essere un ruolo cardine nella protezione internazionale dei beni culturali ed in particolare
il Blue Shield International, che si presenta come ‘la croce rossa dei beni culturali’, dovrebbe svolgere tale funzione; bisognerebbe quindi coinvolgere maggiormente le organizzazioni non governative nel sistema, anche attraverso la cooperazione civile e militare.
Il successo della protezione dei beni culturali nelle zone di guerra è tendenzialmente altalenante. Esistono casi in cui la protezione ha miseramente fallito, come quello del
Museo Nazionale di Baghdad, e altri in cui, invece, si è trovata una rapida risposta come nel caso di Uruk o del conflitto in Mali. Ciò probabilmente è dovuto al fatto che non esiste un vero e proprio manuale militare ma delle prassi che non necessariamente vanno seguite ed universalmente applicate.
Lo stesso manuale militare, pubblicato dall’UNESCO nel 2016, è pensato più come una guida alla comprensione della Convenzione dell’Aja e dei suoi due protocolli piuttosto che come un vero e proprio manuale militare e sembra essere applicabile esclusivamente alle guerre convenzionali. Gli esempi che richiama sono delle semplici citazioni di ciò che fanno o hanno fatto i paesi membri della Convenzione.
L’addestramento del personale militare è il prerequisito fondamentale: ciò che è necessario non è creare dei ‘soldati archeologi’ che, seppur utili in alcuni contesti, non sono sufficienti. L’idea di sensibilizzare i soldati al patrimonio culturale è stabilita all’interno della Convenzione dell’Aja ma finora non è stata applicata correttamente e la creazione di un eliporto in prossimità del sito archeologico di Babilonia ne è un esempio.
Il Blue Shield, che racchiude al suo interno una serie di organizzazioni, potrebbe essere una soluzione nel pre-conflitto in quanto, non solo incentiva la messa in pratica di misure di sicurezze in tempo di pace (ad esempio inventari di beni da proteggere) ma attraverso l’organizzazione di esercitazioni con forze armate, giuristi, professionisti dei beni culturali e associazioni umanitarie (che Blue Shield ha
già e continua a organizzare in vari stati), aiuta anche le varie parti a capire quali siano le responsabilità di ciascuno e come collaborare quando situazioni di emergenza si verificano.
Purtroppo il Blue Shield non è ancora una realtà pienamente efficace sia a causa delle problematiche già esposte sia per le intrinseche e naturali difficoltà di integrazione delle varie ONG che lo compongono.
La ricostruzione post-bellica è uno strumento che, se usato correttamente, come è stato fatto in Mali, può essere d’aiuto nel preservare i beni culturali immobili e mobili,
valutando per quest’ultimi l’ipotesi di una ricostruzione mediante stampa 3D e la realizzazione di oggetti che, seppure copie delle originali, risulterebbero utili allo scopo.
Per quanto riguarda i documenti cartacei, libri e altro che può essere soggetto a deterioramento o distruzione, la loro digitalizzazione può aiutare a preservarne il contenuto. L’Italia vanta una pluridecennale tradizione nella tutela dei beni culturali grazie alla creazione nel 1969 del Nucleo Tutala Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri. Sin dalla sua nascita si è impegnato nella lotta al traffico illecito
di beni culturali e nel loro recupero ma è stato impegnato con successo anche in missioni all’estero come in Iraq, recuperando parte dei reperti saccheggiati nel 2003; non solo, il Nucleo TPC è spesso incaricato di formare il personale di polizia locale nel corso delle missioni all’estero. Non sorprende che nel quadro di una nuova strategia per il rafforzamento della protezione dei beni culturali in zone di conflitto
e della campagna Unite4Heritage, il governo italiano e l’UNESCO abbiano siglato un memorandum d’intesa per la creazione di una task force di 60 unità, composta da carabinieri del nucleo TPC ed esperti del settore, pronti a intervenire per salvaguardare il patrimonio culturale non solo in zone di conflitto ma anche in risposta a calamità naturali.
La prospettiva dei cosiddetti ‘caschi blu della cultura’ sembra essere una soluzione all’inefficacia degli strumenti di protezione messi in campo dalla comunità internazionale, precedenti alla proposta italiana.
Uno dei problemi che può sorgere è che la task force può intervenire solo su richiesta di uno stato membro UNESCO e ciò può rappresentare un ostacolo dal momento che né l’Italia né tantomeno l’UNESCO possono interferire con le faccende interne di un paese. Tuttavia, attualmente, l’idea di una task force resta valida e potrebbe divenire la prassi nelle future operazioni militari all’esterno poiché, se supportata nella maniera corretta intervenendo preventivamente, potrebbe essere uno strumento efficace per preservare non il patrimonio di un singolo popolo ma dell’intera umanità.
Ciò che è necessario quindi, dal momento che si tratterà sempre di agire sotto l’ombrello delle Nazioni Unite, è un mandato chiaro e non vago che includa l’elemento culturale all’interno delle più ampie missioni di stabilizzazione di un paese: una missione di autentico peace keeping non sarà mai coronata da pieno successo se i simboli identitari di un popolo non saranno preservati.